"L'eco di Bergamo", 1977
Maschere di Montale
Nel suo Quaderno di quattro anni Montale rivede Montale, lo supera, lo sintetizza, se di sintesi si può parlare in un percorso che di poesia in poesia ci ha portato a questa panoramica d'abbandono. Perché parlo di panoramica d'abbandono? Per l'evidenza senza veli con cui Montale si mostra e ci mostra motivi e luoghi a lui noti, a noi cari. Il ritorno di voci e nomi conosciuti aiuta a cogliere la parabola che dalle piccole cose, dai personaggi domestici - attraverso il dolore - giunge ad un realismo materiato di fede. Fede nell'esistere e scetticismo nei confronti dell'esistente, amore del visibile del verificabile e rifiuto del codificato: di tutto ciò che fa di noi degli illusi semidei.
Tra le presenze più familiari, ecco fa la sua comparsa Gina, nella quindicesima poesia del volume: "La Gina ha acceso un candelotto per i suoi morti". Presente come una vestale, difende il passato del suo padrone, come ella ama chiamarlo. Ed alla immagine montaliana vorrei accostare quella quotidiana, a me nota, di una Gina viva ed arguta che non lesina rimproveri materni razionando al poeta le sigarette.
Montale con questa raccolta ha dato prova della sua giovinezza, della sua vivacità. Ancora una volta, lento nel passo ma veloce nella mente, sorprende sia chi lo ama, sia chi dopo il Nobel vuole relegarlo tra i busti da museo.
Poco tempo fa, a Forte dei Marmi, un pomeriggio, guardando Gina e me che ci accingevamo ad accompagnarlo nella passeggiata di rito, disse: "Come siete belle, eleganti". Non so se il complimento corrispondesse al vero, ma certo Montale, oggi come ieri, è sensibile al bello e rende belli gli oggetti e gli animali di cui parla, e meno tristi i luoghi, i morti che sembrano presenti in altre dimensioni. E, dal mondo dei morti, ci viene incontro la moglie Mosca che in queste poesie egli chiama "formica", forse a simboleggiarne la vita intensa e viva. Più oltre, parlando delle immagini del passato che confluiscono in una sola, ritorna la presenza di lei. "Allora credevo che solo le donne avessero un'anima". Ma Montale non si sofferma solo sui volti umani, parla di animali di oggetti, torna alla consacrazione simbolica delle piccole cose: la spazzola, il lustrino, il colpo di scopa, il punteruolo di diaspro, il briquet.
A questo amore del quotidiano fa da controcanto la paura dell'eterno: "Se fu triste il pensiero della morte / quello che il Tutto dura / è il più pauroso". La vita è quindi vista come unica certezza: questa "torta che resta" è tutto il nostro universo. Le paure, le ombre, la morte, il vissuto confluiscono tutti in un presente da amare. Il voler essere eterni diventa un atto di presunzione dal quale il poeta rifugge per preferire lo snodarsi del tempo alla rovescia: "non c'è distanza / tra il millennio e l'istante". Montale vorrebbe un prosieguo che fosse nell'ordine del vivere, un per caso del non finire da aggiungere al per caso dell'essere nati di Monod.
Il leitmotiv di questa raccolta è dunque il dubbio che dà origine ad una logica della contraddizione: tematica di fondo della poesia montaliana. "In poesia / quello che conta non è il contenuto / ma la Forma": in questa allusione ad un asserto dei formalisti russi è palese l'ionica contraddittorietà, perché Montale è poeta ricco di contenuti, che si esprime in una forma prosastica vibrante per poi impennarsi, alarsi in armonie. La dialettica dei sentimenti, la riconoscibilità del negativo dal positivo vive anche là dove è negata, vive a dispetto dello scetticismo che aleggia ovunque, vive a dispetto dell'autonegazione: "il Genio è quasi / una cosa da nulla, un colpo di tosse". Ed è al richiamo di questo colpo di tosse e di un gorgheggio baritonale che appare un'altra delle facce o maschere di Montale.
Accenna ad un motivo, tossicchia: ecco il Montale "cantante", conoscitore di romanze ignote ai più, musicologo raffinato che placa il suo mondo di incertezze con giuochi di armonie.
In effetti tutte le sue contraddizioni sono soltanto in superficie, anche da un punto di vista ritmico il suo verso polifonico diviene melodia liquida sulla quale galleggia in sospensione una negatività che non è "né oratoria né sillogistica" (G.F. Contini, Esercizi di Lettura).
Montale cerca una via d'uscita che lo salvi dalle trappole dell'intellettualismo. Ciò che è vero deve essere nella realtà ed esservi per essere percepito, questo enunciato empirico lega bene con l'amore montaliano per gli oggetti, con il cogliere dimensioni anche metafisiche attraverso gli organi di senso. Un empirismo che dalla poesia si trasferisce alla pittura: sperimentando tecniche al vivo con caffè, dentifricio ed altri materiali. Colori e versi sono i suoi strumenti per una sola musica. Se al sopra sensibile preferisce il visibile, il verificabile non è per negare la religione, e per evidenziarne i limiti; ascendere dai particlari agli assiomi.
Alieno da dogmatismi, da buon scettico conclude "spenta l'identità / si può essere vivi / nella neutralità…", e gli fa eco Mantaigne negli Essais: "l'intera natura umana… non attinge di sé che una apparenza oscura e umbratile, un'incerta debole opinione". E in un immaginario saluto di commiato da Montale empirico e scettico ripeto con lui: "Chissà se un giorno butteremo le maschere". Ma sotto queste maschere riconosciamo un volto inconfondibile: il volto vecchio e nuovo di un poeta che non ama "essere conficcato nella storia", un poeta che sa ridere di un merlo nero, in una gabbia d'estate.
Annalisa Cima