Prefazione a L'ANIMA ROVESCIATA di Giancarlo Pandini (Agorà Edizioni, La Spezia, 2001)
L'anima rovesciata è al tempo stesso un palinsesto poetico e una stratificazione di momenti ora oscuri e decomposti, ora tersi e limpidi, pervasi da una ragione dominante che è la coscienza di sÈ che si manifesta in squarci subitanei, in sempre pi· evidenti meditazioni sull'esistenza della felicità.
Esce allo scoperto un poeta che cerca di superare gli ostacoli frapposti dal vivere, esorcizzandoli, l'amore viene usato come contrapposto all'angoscia.
CosÌ Giancarlo Pandini attraverso i suoi limpidi paesaggi, dal "sapore-torpore di provincia", ci conduce "nella calma delle nubi" (p. 3).
La scrittura che ha portato avanti, con ostinata modestia, lungo l'arco di una vita, testimonia il suo isolamento, ma Pandini è un solitario-presente, lontano, ma partecipe, ha ambizioni pi· elevate di quelle della massa dei poeti nani, non considera infatti il successo immediato, vuole essere riconosciuto da quelli che come lui cercano il vero, la felicità nella parola, il sapere nella continua ricerca.
Lasciamo che i suoi versi ci parlino:
Non urge gesto o parola, non urge
altra vita, tempo dell'anno
che s'avvita al fischio del vento,
allo sfiorire del giorno.
(p.4)
Pandini cerca l'"infinito fitto di segnali", "nel ramo d'oleandro che trattiene / la cadenza del volo / dondolando" (p. 9), ma forse il suo infinito l'ha trovato nella poesia, cosÌ sapientemente elaborata, che ci rivela un uomo rassegnato, ma non spento. Le parole chiave che elabora lo aiutano a ritrovare la felicità perduta, l'eden promesso.
I suoi maestri sono poeti dal tono pacato, dalla fantasia fervida; le metafore, il linguaggio sono come un filo che ci riporta al grande ligure, Eugenio Montale, un filo che si dipana attraverso scene quotidiane, che si anima di presagi e porta a noi una coerente filigrana d'immagini, un ceppo d'assoluto: "l'ampio respiro del tempo, /…/ nel muto andare della vita…" (p. 16).
Cercando l'assoluto, Pandini s'affaccia al baratro, si ritrae, in un'altalena di ritmi alternati.
Siamo di fronte ad un poeta che è anche un lettore attento e sagace, qualità insolita in un panorama di scrittori che leggono solo le proprie opere.
In lui riscontro un religioso sostanziale senso del magico che, dall'apparizione al mutamento, si trascina fuori dalle coordinate per evadere alle clausole scontate, per la scelta di un'unica nozione di ritmo che è scandita sul ritmo del cuore, in cui l'oggi e il domani entrano a colloquio con le aritmie dell'autore.
Un respiro umile di un'essenza dell'anima che, rovesciata, rivela quello scorrere uguale e sempiterno del tempo.
Con una serie di interrogativi Pandini mette l'accento sull'ansia del vivere, la giovinezza perduta.
Sono versi sognanti e disperati d'un poeta che sente sfuggire il presente e non vede un futuro certo, mentre il passato si congela per creare un'illusione di continuità e trova invece:
Di terra in terra un pianto
che si sovrappone come il vento
forte da troppe direzioni
di terra in terra un pianto
di giovane vittima
senza chiara condizione, un pianto
che si dilata, che diventa tuo mio
ed è il tempo di sapere, con coscienza
forte da dove viene, da quale terra
da quale direzione e perchÈ.
(p. 18)
Nel bell'incipit: "Il vento questa sera / porta metafore, pensieri" ritorna l'eco montaliana, che Giancarlo Pandini evoca senza infingimenti.
Un'ombra del vissuto e del non vissuto si stende sulle immagini dei luoghi, un'angoscia heideggeriana, temperata da un amore per la natura che lo circonda, immette il lettore in un versificare semplice e colto al tempo stesso, e ci riporta il canto disperato e felice di Machado.
Scrive Pandini:
Ricordo o non ricordo
il mirabile senza-tempo
della prenascita, specchiato
in una similarità beata,
oscura nella memoria della specie,
o ancora oltre, un al-di-là
di pensieri, la foce
di un'ansia che forse era
creaturale, ansia di non-vita,
di vita
(p. 23)
e ancora:
Il cielo aperto, l'aria squillante, l'ansia
di fioriture, l'invisibile
che ritorna alla fonte,
al male del fiorire prima di fiorire,
al deserto prima della sete,
allo specchiante amore
di terra acqua luce
nella fissità oscura del creato.
(p. 24)
Ritorna insistente il tema della morte che s'avvicina, il tentativo del poeta è quello d'esorcizzarla con ogni mezzo: preghiera, contemplazione della natura, speranza che è fede nell'oggi, nel dopo, nell'amore perduto, ma sempre presente come icona dell'esistenza.
Cosa possiamo conoscere di noi stessi, della nostra anima rovesciata?, si chiede Giancarlo Pandini; gli rispondiamo se anche solo l'amore che egli evoca nella sua ultima lirica fosse l'unica risposta alla vita, al nulla che l'intride, che la percorre, che l'annienta, basterebbe.
Guardiamo alla nostra avventura terrestre con eroica lucidità e incamminiamoci verso il dopo, come verso il trionfo del pensiero, in compagnia di Aristotele, Agostino, Cartesio, Leibnitz, in compagnia di Saffo, Dante, Ariosto, Foscolo, Leopardi, Ungaretti e Montale e troveremo insieme a loro il trionfo della vita sulla morte, in un processo di superamento dell'ego che ci domina e ci costringe, per una fine che è speranza di tolstoiana memoria.
" l'essenza stessa dell'altro, del tu complementare che troviamo in Unamuno o in Machado o in Montale, questo oggi Giancarlo Pandini ci propone con una silloge che sarà cara ai lettori per la sua semplice esplosione e implosione di dolore-gioia.
Annalisa Cima